Il dissesto idrogeologico italiano: eventi meteo intensi sempre più ravvicinati nel tempo miscelati con l’incuria e la cattiva gestione del territorio già naturalmente fragile
Gli intensi fenomeni meteorologici e le piogge intense di questo inizio d’autunno cadute nel nord ovest del territorio italiano hanno riproposto in modo inequivocabile il consueto e, ormai, periodico problema irrisolto del dissesto idrogeologico. Come già più volte accaduto, oltre agli ingenti danni di natura economica, questa volta abbiamo assistito, purtroppo, anche ad un contributo in vite umane. Tuttavia, ciò che mi colpisce come geologo e tecnico dell’ambiente della narrazione di questi eventi, è la natura delle risposte di alcuni intervistati (spesso aventi funzioni pubbliche e politiche) che attribuiscono esclusivamente al “maltempo eccezionale”, una formula utilizzata per sottolineare quasi una sorta di imprevedibilità fatalista, i danni prodotti da questi accadimenti. Analizzando le cause più in dettaglio occorre specificare che il territorio italiano è dotato di una fragilità intrinseca derivante dalla natura relativamente giovane, a livello geologico, della nostra penisola, caratterizzata da situazioni morfologicamente ancora in fasi evolutive contraddistinte da litologie diverse.
Come recita l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), pubblicato a luglio 2018 l’Italia, dai dati dall’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia, annovera 620.808 frane che interessano un’area di 23.700 km2, pari al 7,9% del territorio nazionale. La superficie complessiva, in Italia, delle aree a pericolosità da frana dei Piani di Assetto Idrogeologico e delle aree di attenzione è pari al 19,9% del territorio nazionale, alle quali occorre poi aggiungere circa 41.000 Km2 di aree a pericolosità idraulica e a rischio alluvioni. Su tale condizione di pericolosità generale appare evidente che eventi meteorologici particolarmente intensi quali nubifragi e tempeste come ad esempio il caso di Limone Piemonte e della Valle Roya francese in cui sono caduti 600 millimetri di pioggia in meno di 24 ore cioè metà della pioggia media di un anno caduta in un giorno su un territorio non abituato a simili quantità, possano avere un effetto devastante. Ciò che ci dobbiamo aspettare, per il prossimo futuro, è che fenomeni simili saranno sempre più frequenti. I cambiamenti climatici e il riscaldamento globale, come asseriscono i climatologi, stanno agendo a livello planetario e, per quanto ci riguarda, anche in corrispondenza dell’area del Mediterraneo dove la produzione di maggiore vapore disponibile per la formazione delle piogge, amplifica e rende le stesse più intense e distruttive. Gli aspetti naturali citati sino ad ora, però, non risultano sufficienti a descrivere la situazione di dissesto che registriamo ogni qual volta si manifestano fenomeni simili. Il quadro complessivo risulta completo solo se all’interno dello scenario appena descritto inseriamo l’azione antropica.
I danni diretti provocati dall’uomo
Per troppi anni si è proceduto con scelte urbanistiche scorrette, disattendendo le valutazioni tecniche conoscitive delle peculiarità di un territorio e delle sue fragilità, costruendo in aree potenzialmente instabili o di pertinenza fluviale. Il consumo di suolo, come risulta dal rapporto redatto da Ispra, è ancora elevato nelle zone periurbane e urbane a bassa densità, in cui si rileva un continuo e significativo incremento delle superfici artificiali, con un aumento della densità del costruito a scapito delle aree agricole e naturali, sempre più frammentate e oggetto di interventi di artificializzazione a causa della maggiore accessibilità dovute al potenziamento del sistema infrastrutturale viario. Basti pensare che a livello nazionale il consumo di suolo è pari al 7,75% dell’intero territorio. In 15 regioni viene superato il 5% con il valore percentuale più elevato in Lombardia (12,99%) seguita dal Veneto (12,35%) e dalla Campania (10,36%). Con valori compresi tra l’8 e il 10% troviamo poi l’Emilia Romagna, il Friuli Venezia Giulia, il Lazio, la Puglia e la Liguria. La Valle d’Aosta risulta essere l’unica regione sotto la soglia del 3%. Visti i numeri di cui sta parlando il dissesto idrogeologico in Italia dovrebbe essere un punto focale di qualsiasi programma istituzionale, non solo per preservare l’habitat naturale ma anche per ridurre e gestire gli impatti sulla popolazione, sulle infrastrutture lineari di comunicazione e sul tessuto economico e produttivo. Non va poi trascurato l’enorme valore economico e il numero di beni culturali soggetti a rischio definendo i costi ed il tipo di intervento necessario per la loro messa in sicurezza.
I costi sostenuti dalle casse dello Stato italiano e dalla collettività causati dalle calamità naturali, secondo il “Natural disaster in Italy: evolution and economic impact”, un lavoro di ricerca economica pubblicato da Prometeia, ammonta per alluvioni e frane a circa 160 miliardi di euro. La cifra ottenuta è stata calcolata parametrando i costi al valore del denaro nel 2018. La tanto invocata azione di prevenzione, sicuramente meno impattante economicamente dell’azione di ricostruzione post evento, e l’avvio di un piano Marshall di investimenti per il territorio rimangono ancora, purtroppo, una speranza. In realtà i costi non comprendono solo di aspetti economici ma anche quelli ambientali. Se i costi economici sono importanti altrettanto dobbiamo dire dell’intervenire rapidamente per mettere in sicurezza il nostro territorio e il nostro habitat. Abbinato ad un piano di investimenti occorre prevedere anche un’azione di tipo culturale che modifichi la nostra percezione dell’ambiente mirata più all’utilizzo delle risorse che ad una effettiva azione di tutela e sostenibilità dell’utilizzo delle stesse. Per intervenire sulla messa in sicurezza del territorio e sulla mitigazione degli effetti dovuti al cambiamento climatico dobbiamo operare uno scatto importante e decisivo verso un cambiamento di rotta nella gestione dell’ambiente, attento alle dinamiche evolutive del territorio sviluppando azioni di adattamento che rappresentino il migliore bilanciamento fra azioni strutturali e non strutturali.
E’ necessario nell’ottica dell’adattamento il concetto di “rischio sostenibile” partendo dalla considerazione che, anche indipendentemente dai cambiamenti climatici e ambientali in atto o previsti, non è possibile garantire una sicurezza completa (“rischio nullo”), sempre e per tutti gli elementi vulnerabili. Nell’ambito della gestione del rischio sostenibile assumono fondamentale importanza sistemi di allerta precoce affidabili e in grado di raggiungere in maniera efficace la popolazione esposta al rischio. In questo contesto, investimenti su tecnologie di monitoraggio e soprattutto miglioramento della comunicazione al cittadino e della sua percezione del rischio, sono da considerarsi come misure di adattamento “non strutturali” tra le più efficaci almeno per quanto riguarda specifici rischi diffusi sul territorio italiano. Citando Albert Einstein “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.”